venerdì 19 febbraio 2010
Ricominciare
Da qualche parte si deve pur ricominciare. Dopo un periodo molto lungo di buio, dove la scrittura era solo nei miei pensieri, sono tornato a scrivere qualcosa. O meglio, riscrivere qualcosa che avevo già scritto qualche tempo fa. E' un pezzo che avevo pubblicato in un sito di scrittura che ora non c'è più. In quel caso mi erano state fatte delle critiche positive e dei consigli che ho cercato di seguire, provando a migliorare il mio scritto. Spero di esserci riuscito.
QUELLO CHE DICE LA GENTE
Il silenzio che regna in questo posto è interrotto solamente dal rumore dei miei passi che schiacciano il ghiaino bianco del vialetto. Alti cipressi si allungano verso il cielo, facendosi accarezzare da un lieve soffio di vento.
Il cielo è di un grigio opaco, a tinta unita, da sembrare quasi sfuocato. Scende silenzioso sulle costruzioni basse in marmo e sasso, in una triste e disordinata sfilata di grigi e neri.
Le sbiadite chiome dei fiori recisi, si piegano alle incostanti attenzioni di quelli che restano, pensando di essere ancora vivi.
Sento su di me centinaia di sguardi: sbarrati, corrucciati, allegri, piatti. Rinchiusi in un ovale di ceramica, fermi a guardare il tempo che scorre lento, silenzioso, implacabile.
Anche per Stefano è così. Rinchiuso in quella foto, accanto a quel che resta di un mazzo di fiori secchi. Il suo viso è rimasto come allora. Profonde rughe d’espressione a solcargli un viso invecchiato prima del tempo, bruciato dal sole e crepato dal freddo. Il suo sguardo è triste, come lo era anche la sua esistenza. Senza il sostegno di una famiglia, che era meglio non avere, prendi quello che ti capita. Quello che in quel momento, può sembrare più opportuno ad un ragazzo dall’animo semplice. Appena lo stato gli ha permesso di farlo, si è buttato nel mondo dei grandi. Diventando grande per forza, senza avere il tempo di crescere.
A distanza di tempo penso che l’unico punto fermo della sua breve e tormentata vita, fossero i suoi amici. Quelli che non lo giudicavano nell’aspetto o lo sfottevano nel sentirlo parlare. I suoi amici, quelli che lo portavano a casa quando non ce la faceva da solo e non gli permettevano di prendere la macchina, perché conoscevano il suo segreto. Non un segreto inconfessabile, ma un problema, di cui però si vergognava. Una malattia che non sapeva di avere, ma che di malattia si tratta. Così, quando qualcuno dei suoi amici lo trovava assopito, semisvenuto o pesantemente addormentato, sapeva cosa doveva fare, senza tante domande. Senza dare tante spiegazioni a chi, anche conoscendo il problema, non avrebbe capito. Quelli che si limitavano a sparlare e giudicare, senza provare a capire, senza pensare che poteva esserci qualcosa di diverso dall’essere ubriachi. Frasi fatte, dette a mezza bocca con lo sguardo strafottente di chi si sente superiore, perché a loro non è mai successo, oppure è successo e gli succede ancora, ma gli piace mentire a se stessi e agli altri.
Frasi scontate, dette con la povertà d’animo di chi non merita neanche il tempo di un pensiero fugace. Inutili macigni gettati sulla vita di una persona, rompendo quel superficiale stato di tranquillità. Parole pesanti, scritte a grandi lettere e ritagliate dalle prime pagine dai quotidiani il lunedì mattina. Frasi dette e ridette, ripetute all’infinito e riempite con vocaboli alla moda come ubriaco, ammazzare qualcuno, morte annunciata.
Questo è quello che diceva la gente, annunciando inconsapevoli un destino già scritto.
In un giorno d’estate, uno di quei giorni in cui non fa mai giorno, ha voluto sfidare il suo segreto, fingendo che non fosse reale. Un giro in macchina, facendo quello che amava di più nella vita, sentirsi libero.
Era solo in macchina quando si è addormentato andando fuori strada. Si è schiantato nel freddo cemento di un viadotto. E solo è rimasto, fino a quando lo hanno trovato, avvolto dalle lamiere.
Quando l’ho visto per l’ultima volta, il suo viso non era più quello di tutte le foto, era diverso. Non più tirato, nervoso, accigliato; con le labbra strette come per trattenersi nel dire qualcosa. Quando l’ho visto per l’ultima volta il suo viso era rilassato, felice, in pace con se stesso.
Mi piace pensare che sia morto felice, sorridendo nel sonno, proprio come facciamo tutti quando facciamo un bel sogno. Quando in sogno fantastichiamo di realizzare quello che abbiamo nel cuore, senza che nessuno te lo possa impedire.
Mi piace pensare che stesse sognando di viaggiare libero, senza il suo segreto addosso. Senza preoccupazioni, svincolato da ogni giudizio, libero da qualsiasi pensiero. Senza quel problema che faceva parlare tanta gente. Senza dover sentire ancora una volta, quello che dice la gente.
Il cielo è di un grigio opaco, a tinta unita, da sembrare quasi sfuocato. Scende silenzioso sulle costruzioni basse in marmo e sasso, in una triste e disordinata sfilata di grigi e neri.
Le sbiadite chiome dei fiori recisi, si piegano alle incostanti attenzioni di quelli che restano, pensando di essere ancora vivi.
Sento su di me centinaia di sguardi: sbarrati, corrucciati, allegri, piatti. Rinchiusi in un ovale di ceramica, fermi a guardare il tempo che scorre lento, silenzioso, implacabile.
Anche per Stefano è così. Rinchiuso in quella foto, accanto a quel che resta di un mazzo di fiori secchi. Il suo viso è rimasto come allora. Profonde rughe d’espressione a solcargli un viso invecchiato prima del tempo, bruciato dal sole e crepato dal freddo. Il suo sguardo è triste, come lo era anche la sua esistenza. Senza il sostegno di una famiglia, che era meglio non avere, prendi quello che ti capita. Quello che in quel momento, può sembrare più opportuno ad un ragazzo dall’animo semplice. Appena lo stato gli ha permesso di farlo, si è buttato nel mondo dei grandi. Diventando grande per forza, senza avere il tempo di crescere.
A distanza di tempo penso che l’unico punto fermo della sua breve e tormentata vita, fossero i suoi amici. Quelli che non lo giudicavano nell’aspetto o lo sfottevano nel sentirlo parlare. I suoi amici, quelli che lo portavano a casa quando non ce la faceva da solo e non gli permettevano di prendere la macchina, perché conoscevano il suo segreto. Non un segreto inconfessabile, ma un problema, di cui però si vergognava. Una malattia che non sapeva di avere, ma che di malattia si tratta. Così, quando qualcuno dei suoi amici lo trovava assopito, semisvenuto o pesantemente addormentato, sapeva cosa doveva fare, senza tante domande. Senza dare tante spiegazioni a chi, anche conoscendo il problema, non avrebbe capito. Quelli che si limitavano a sparlare e giudicare, senza provare a capire, senza pensare che poteva esserci qualcosa di diverso dall’essere ubriachi. Frasi fatte, dette a mezza bocca con lo sguardo strafottente di chi si sente superiore, perché a loro non è mai successo, oppure è successo e gli succede ancora, ma gli piace mentire a se stessi e agli altri.
Frasi scontate, dette con la povertà d’animo di chi non merita neanche il tempo di un pensiero fugace. Inutili macigni gettati sulla vita di una persona, rompendo quel superficiale stato di tranquillità. Parole pesanti, scritte a grandi lettere e ritagliate dalle prime pagine dai quotidiani il lunedì mattina. Frasi dette e ridette, ripetute all’infinito e riempite con vocaboli alla moda come ubriaco, ammazzare qualcuno, morte annunciata.
Questo è quello che diceva la gente, annunciando inconsapevoli un destino già scritto.
In un giorno d’estate, uno di quei giorni in cui non fa mai giorno, ha voluto sfidare il suo segreto, fingendo che non fosse reale. Un giro in macchina, facendo quello che amava di più nella vita, sentirsi libero.
Era solo in macchina quando si è addormentato andando fuori strada. Si è schiantato nel freddo cemento di un viadotto. E solo è rimasto, fino a quando lo hanno trovato, avvolto dalle lamiere.
Quando l’ho visto per l’ultima volta, il suo viso non era più quello di tutte le foto, era diverso. Non più tirato, nervoso, accigliato; con le labbra strette come per trattenersi nel dire qualcosa. Quando l’ho visto per l’ultima volta il suo viso era rilassato, felice, in pace con se stesso.
Mi piace pensare che sia morto felice, sorridendo nel sonno, proprio come facciamo tutti quando facciamo un bel sogno. Quando in sogno fantastichiamo di realizzare quello che abbiamo nel cuore, senza che nessuno te lo possa impedire.
Mi piace pensare che stesse sognando di viaggiare libero, senza il suo segreto addosso. Senza preoccupazioni, svincolato da ogni giudizio, libero da qualsiasi pensiero. Senza quel problema che faceva parlare tanta gente. Senza dover sentire ancora una volta, quello che dice la gente.
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